L’evoluzione ha dotato l’uomo di diversi recettori sensoriali, utili alla nostra sopravvivenza, quali la vista, l’olfatto, la somestesia (chemestesi, tatto e cinestesi) e il gusto. Nell’uomo primitivo, anche il gusto era un importante senso di difesa, per individuare al primo assaggio ciò che poteva nutrire o ciò che poteva ledere all’organismo. C’è un significato biologico del gusto: il dolce e l’umami (dal giapponese “saporito”, un gusto sapido, piacevole, che viene dal glutammato) sono biologicamente favoriti in quanto propri dei cibi più nutrienti, più calorici, più utili all’uomo che deve affrontare carestie e procurarsi il cibo. Anche il salato è favorito, in quanto assicura al nostro organismo un bilancio approporiato degli elettroliti. L’acido e l’amaro sono invece rifiutati in maniera incondizionata, in quanto entrambi richiamano al nostro cervello l’idea di tossico, di nocivo (Chaudhari & Roper, 2010).

Tuttavia, il consumo medio di zuccheri negli anni è rovinosamente salito, anche se il pericolo dell’uomo moderno non è più la carestia, ma viceversa l’obesità e le sue comorbidità (Tappy – Le KA, 2012).

Alla base di questo consumo di dolci, di cui le persone spesso si definiscono anche dipendenti, c’è quindi una predisposizione biologica universale: nasciamo con l’innata volontà di consumare solo e più frequentemente possibile i dolci.

Tuttavia, anche se la preferenza verso i dolci è congenita all’uomo, essa può essere modulata con l’esperienza prenatale (liquido amniotico) e post natale (soprattutto nello svezzamento). Le abitudini alimentari della famiglia, infatti, influenzeranno in maniera importante l’alimentazione del bambino.

“Non piangere, ora ti compro il gelato!” Quante volte ci è stato detto, o lo abbiamo detto noi stessi? L’intenzione è buona, ma l’effetto rischia di creare un sistema di ricompensa che va a rafforzare la predisposizione nnata per i cibi dolci.

E’ forte la tentazione di usare il cibo come mezzo per ottenere un determinato comportamento. Il cibo ha il potere di calmare, rassicurare e tranquillizzare; lo vediamo nel neonato, che alla prima poppata placa il suo pianto.  Tuttavia, manipolare il comportamento del bambino attraverso il cibo può generare alcune conseguenze di difficile risoluzione nel lungo termine.

Utilizzando il cibo come ricompensa o punizione, insegniamo ai bambini una regola associativa che possiamo così sintetizzare: per gestire una situazione stressante, c’è bisogno di cibo. Questa associazione pone le basi per strutturare la fame emotiva nell’adulto, che mangia spinto dalle emozioni piuttosto che dalla fame fisiologica. La fame emotiva genera un circolo vizioso. Il cibo può sembrare una soluzione velocemente efficace che compensa un malessere. Si prova, quindi, una sensazione di benessere e appagamento seppur temporanea. Infatti, dopo aver mangiato non si risolve il problema alla base, ma si avverte un senso di colpa e di impotenza per la difficoltà a far fronte ai problemi in modo costruttivo.

Questo circolo vizioso è alimentato dalla dipendenza fisiologica, che il dolce è in grado di produrre nel nostro organismo.

Esiste una teoria, quella del “food addiction”, per cui le persone possono essere dipendenti dal cibo nello stesso modo in cui altre lo sono verso la droga. È stato infatti dimostrato, in diversi studi clinici, che il desiderio di cibo, in pazienti sia obesi che normopeso, attiva delle aree del cervello similari a quelle attivate nei tossicodipendenti desiderosi di droga (Pelchat, Johnson, Chan, Valdez and Regland, 2004; Wang, Volkov, Thanos and Fowler, 2004). Sappiamo anche che la restrizione alimentare può rafforzare gli effetti di molti abusi di droghe (Carr, 2007). Sulla base di queste premesse Nicole M. Avena ha indagato gli effetti del binge eating nei ratti. Il binge eating, definito in Italia come il disturbo da alimentazione incontrollata è il disturbo alimentare attualmente più diffuso. È caratterizzato da ricorrenti crisi iperfagiche compulsive ed incontrollate, seguite da un forte disagio psicologico e da un senso di vergogna che spinge a mangiare in solitudine, spesso di notte. Un altro interessante dato che l’OMS ci fornisce è che circa il 20% della popolazione obesa soffre di binge eating. Una malattia psichiatrica, per la quale è necessario un approccio multidisciplinare, psicologico e dietetico. Dopo circa un mese dall’inizio della sperimentazione di Avena i ratti, cui era stata resa disponibile una soluzione zuccherina ad intervalli regolari, mostravano già comportamenti tipici dell’astinenza da sostanze, compresa l’escalation nell’aumento del consumo di zucchero, ad ogni nuova disponibilità, soprattutto nella prima ora (abbuffata). I ratti inoltre, man mano riducevano il consumo di mangime standard, compensando così apparentemente l’eccesso in zucchero e rimanendo in normopeso. Attraverso autoradiografia è stato visto che l’effetto della dipendenza da zucchero sui neurotrasmettitori è speculare a quello degli oppioidi, per cui è lecito affermare che lo zucchero ha sul sistema nervoso del ratto un effetto biologicamente simile a quello della cocaina o della morfina, sebbene di minor grandezza.

In conclusione, abbiamo visto come siano molteplici le motivazioni congenite e acquisite che ci spingono a prediligere i cibi dolci. Se questa preferenza alimentare assume le caratteristiche di compulsività e dipendenza, diviene auspicabile richiedere l’aiuto di un equipe di professionisti per poter indagare sul proprio disagio emotivo e sulle inappropriate abitudini alimentari ad esso correlate. La pratica clinica evidenzia come educazione alimentare e strategie di regolazione emotiva possano essere dei validi supporti per acquisire e mantenere delle sane abitudini alimentari.

Dott.ssa Laura Giannini e Dott.ssa Benedetta Chimenti