Una caduta accidentale in casa, un trauma o un aumento della fragilità ossea causato dall’osteoporosi possono provocare una frattura a livello del femore. Una seria minaccia per i soggetti in età avanzata. Le fratture del femore, ma anche quelle vertebrali o della spalla, possono infatti portare a una disabilità permanente e alla perdita della capacità di camminare e di svolgere le attività quotidiane in maniera autonoma. Nonché, nel 15-20% dei casi, alla morte entro un anno dall’incidente.
Per questi tipi di fratture è indispensabile ricorrere alla chirurgia, con tecniche diverse a seconda della sede e del tipo di lesione. Nello specifico, le fratture mediali sono quelle localizzate all’interno della capsula articolare. In questo caso il gold standard chirurgico è l’inserimento di una protesi, parziale o completa. In caso di frattura laterale, cioè fuori dalla capsula, si deve invece intervenire con l’osteosintesi. Si tratta di un trattamento mininvasivo finalizzato a ridurre la frattura e a stabilizzarla attraverso dei mezzi di sintesi che permettono all’anziano di rimettersi in piedi più velocemente.

Cos’è l’osteosintesi

L’osteosintesi è un intervento chirurgico che ha lo scopo di stabilizzare una frattura ossea unendo le sue parti. Lo si fa mediante mezzi idonei (viti, chiodi, placche, ecc.), fino al consolidarsi del callo osseo.
Come riferito in apertura, questa tecnica ha una precisa indicazione nel trattamento delle fratture laterali. Inoltre, trova impiego anche in caso di fratture esposte ad alto rischio di infezione o di fratture in cui l’osso è separato in più frammenti.
L’osteosintesi rende il percorso di guarigione più rapido, Nelle persone anziane, permette di evitare le conseguenze di un allettamento prolungato, responsabile dell’aggravarsi di patologie preesistenti ben controllate fino a quel momento.

Osteosintesi esterna ed interna

La fissazione delle fratture mediante osteosintesi può essere di diversi tipi.
A seconda che la frattura venga resa stabile mediante un fissatore esterno oppure attraverso mezzi di sintesi posizionati all’interno dell’osso o adesi ad esso, l’osteosintesi si distingue in esterna e interna.
L’osteosintesi esterna presenta il grosso vantaggio di essere davvero poco invasiva. In compenso, però, la stabilizzazione ottenuta non è molto solida. Relativamente alla riduzione interna, occorre precisare che, a sua volta, si suddivide in osteosintesi a cielo aperto e osteosintesi a cielo chiuso.
La prima viene eseguita con l’ausilio di placche o viti e garantisce una forte stabilità, ma presenta un alto rischio di infezione. La seconda (osteosintesi con applicazione del chiodo endomidollare) viene attuata effettuando dei piccoli accessi chirurgici, senza aprire il focolaio di frattura. Questo permette di ridurre la durata dell’intervento e il rischio di infezione, ma lo svantaggio è che in alcuni casi non si ottiene una buona riduzione.

L’osteosintesi con fili di Kirschner

Un ulteriore metodo di fissaggio è l’osteosintesi con fili di Kirschner, un intervento eseguito di regola in anestesia locale.
Questa tecnica consiste nel fissare all’osso particolari fili metallici dotati di una punta aguzza in grado di incunearsi negli strati ossei più duri. Una volta che il filo è agganciato all’osso, l’altra estremità rimane fuori. In questo modo, a guarigione avvenuta, è possibile rimuovere il filo senza bisogno di intervenire chirurgicamente. La sintesi con fili di Kirschner consente di trattare anche le ossa corte, come quelle del polso e del piede.
Passando alla fissazione esterna delle fratture, questa è caratterizzata dal fatto che il mezzo di sintesi è posizionato fuori dall’organismo. Tale tecnica presenta il vantaggio di fornire risultati soddisfacenti senza compromettere i tessuti molli. Inizialmente presa in considerazione solo per il trattamento di lesioni severe (Damage Control Orthopaedics), la fissazione esterna è oggi una metodica sempre più utilizzata per le fratture di bacino e arti.

Osteosintesi: tempi di recupero

L’obiettivo dell’osteosintesi è quello di rimettere in piedi il paziente il prima possibile, anche per evitare le conseguenze della cosiddetta “sindrome da allettamento” (piaghe da decubito, broncopolmoniti, infezioni delle vie urinarie, embolie, ecc.), soprattutto nei soggetti affetti da frattura del femore con età superiore ai 65 anni. Con questo tipo di intervento è generalmente concesso un carico progressivo, ancorché ridotto e a tolleranza del paziente, già dal giorno successivo, se possibile.
I tempi di recupero dipendono da molti fattori, tra cui la metodica scelta e le caratteristiche individuali del paziente. In genere, l’apparecchiatura di fissaggio si rimuove con un secondo intervento dopo un periodo variabile dai 6 ai 18 mesi, ma in alcuni casi si preferisce lasciarla in sede.
Tra le possibili complicanze di un intervento di osteosintesi si annoverano infezioni, lesioni vasculo-nervose, pseudoartrosi, fratture intra operatorie e rottura dei mezzi di sintesi.
Dopo l’intervento di osteosintesi, il paziente deve essere avviato ad un percorso riabilitativo e assistenziale che lo accompagni attraverso le varie fasi della cura fino al recupero dell’autosufficienza, al fine di scongiurare la comparsa di eventi clinici avversi.